Siamo passeggeri distratti, come canta la canzone.
Non ci accorgiamo del tempo che passa fino a quando passa davvero e incrociamo un ricordo, una data.
È una sensazione strana quella che ci rende consapevoli che non abbiamo più vive le nostre radici, che non abbiamo appigli dove aggrapparci, che siamo anzi noi quelli da cui si aspettano una mano per sorreggere gli inciampi.
E allora quasi da spettatori impauriti attraversiamo eventi e anniversari, un po’ straniti e comunque complici, in quei lunghi discorsi muti che facciamo a noi stessi e a chi ha provato a lasciarci, ma in realtà, anche a distanza di oltre cinquant’anni, non l’ha davvero fatto.
Mi verrebbe da chiamarlo Pa’, quando ci parlo e lo trattengo nel pensiero, come fa mio figlio da uomo a uomo con me, o Papà, come cinguetta mia figlia, ma il cassetto della memoria mi consegna un naturale Babbo e tale rimane e rimarrà.
E in quel nome c’è tutto, tutto quello che noi passeggeri distratti non vediamo: i luoghi, i profumi, le persone. A chiamarlo magicamente ricompare tutto e mi commuovo. O che magia sarà?
(Da Archivio DG)

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