I più giovani vedono a rischio il futuro: davanti hanno una vita da precario. I più anziani si sentono frustrati: il blocco degli scatti congela l’atteso aumento di stipendio e ridurrà le entrate mensili quando andranno in pensione. Sono quasi duemila, tutti arrabbiati e sconcertati, nella palestra dell’istituto Piaggia di Capannori.
Una moltitudine così non se l’aspettava nessuno, nemmeno gli organizzatori più ottimisti dell’assemblea provinciale degli insegnanti (i sindacati Flc Cgil, Cobas Scuola e Gilda) che in molti istituti della Lucchesi, ha fatto slittare di un giorno l’inizio delle lezioni per l’anno 2010-2011.
La riforma porta bocconi amari per tutti, e tanta delusione. Ognuno la sua: cambia a seconda degli anni di lavoro e delle aspettative.
Giuseppe Saraceno, trent’anni, di Catanzaro, insegna francese nelle scuole di Lucca e della Piana. Ha una laurea e una doppia abilitazione, racconta, una delle quali è la famigerata Sis, ottenuta dopo aver superato l’esame, ma i corsi erano a pagamento. «Mi è costato 4mila euro frequentarli – dice il giovane insegnante -. Quest’anno ci sono state, in Italia, solo diecimila assunzioni a ruolo. I posti vacanti sono molti di più: noi precari rivendichiamo le assunzioni a ruolo per i posti vacanti e gli scatti di anzianità, come gli insegnanti di ruolo. I precari non hanno scatti. Ne beneficiano solo quelli che insegnano religione, nominati dalla Curia ma pagati dallo Stato».
Come Giuseppe, Gerardo Proia. Quarant’anni, viene da Frosinone, nella Ciociaria, insegna elettrotecnica all’Ipsia Giorgi. Il suo malessere è che il precario rappresenta, per le istituzioni, un “signor Nessuno”. «La mia classe di concorso è destinata a svanire – dice Proia -. A Frosinone, dove abitavo, non ci sono più opportunità di lavoro, così mi sono trasferito. Ma più che precario non posso essere. Ho partecipato a tutti i sit-in dei precari, anche a Montecitorio: non siamo mai stati ricevuti».
E poi c’è l’amarezza degli insegnanti con venti e passa anni di lavoro sulle spalle, che ancora credono nella loro professione ma che vedono svanire le speranze anche in un miglioramento personale. Come raccontano due insegnanti dell’istituto Carducci Buonarroti, che preferiscono non dire il nome. «Ho 27 anni di lavoro sulle spalle – dice una delle due docenti -, sono a servizio in ruolo. In questi ultimi anni ho visto cose impensabili, eppure sono una moderata. Non approvo che tutte le 18 ore della cattedra siano di insegnamento. Non abbiamo più margini per la progettazione, per le ore di supplenza». Un aspetto sottolineato anche da Anna Nelli, insegnante di filosofia al Vallisneri e da altre sue colleghe dell’istituto. «Il fatto di non avere più ore disponibili per coprire l’assenza di un collega – dice Anna Nelli – ha reso gli orari sempre più flessibili. Ora le classi entrano spesso un’ora dopo, escono un’ora prima se manca un insegnante, e i ragazzi si sono fatti a loro volta un’idea di flessibilità che non è giusta». «Ma i ragazzi che escono alle dodici da scuola, dove vanno?», le fa eco la collega Maria Antonietta Palumbo, docente di spagnolo al Vallisneri, preoccupata come insegnante e come genitore. I problemi che sollevano gli insegnanti sono innumerevoli: tanti docenti con le cattedre ridotte a sei ore, i libri di testo fatti acquistare senza che i programmi ministeriali fossero stati