Non sono nato a Viareggio al Tabarracci, neanche in qualche comune vicino, mia madre mi ha partorito in un piccolo paese del compitese, Castelvecchio, nella zona sud del comune di Capannori, al confine del territorio pisano.
La prima volta che ho soggiornato per un paio di settimane al mare, l’ho fatto a sei sette anni, in una camera tripla (forse quadrupla non ricordo) riservata alla servitù, di un bell’appartamento a Città Giardino, dove mia madre, nel periodo delle sue ferie, per arrotondare “guardava i bimbini ” ad una agiata famiglia lucchese.
Sento ancora la trepidazione nell’attraversare la strada per andare al mare, la speranza del bombolone dopo il bagno, l’attesa sonnacchiosa del pomeriggio in pineta.
Poi gli anni dopo, la casa affittata in estate dai miei zii che mi ospitavano, “per farmi cambiare aria” chè siccome ero magro rifinito magari mi veniva appetito e mettevo su qualche chilo. Con loro attraversavo il mercato con calma e mi fermavo a sentire il profumo del pesce, tra il vociare della gente in ciabatte, cannottiere e vestaglie a fiori colorate. Il bello era il viaggio, stipati insieme ai bagagli su una bianchina famigliare beige, che sembrava una carrozza. Ricordo il rumore del pullman la domenica, che mi regalava finalmente la mamma e insieme a lei le ore allungate fino a sera sulla spiaggia, in quella tenerezza naturale dei tramonti agostani, stanchi, rallentati, scottanti.
Scottante era soprattutto, qualche anno dopo, la rena della darsena, in quelle comitive allegre e spericolate che si cuocevano senza l’ombrellone, facevano i tuffi in cima al muraglione e “franella” in pineta, dopo aver mangiato un frittino alla Festa dell’Unità.
I passaggi sulle 128 degli amici che lavoravano, poi la prima 500 blu usatissima, ma preziosa e coccolata al parcheggio sotto i cannicci, che costava cifre assurde per uno studente senza soldi e ancora senza barba. Se ci ripenso m’arrabbio ancora da quanto me la
ritrovavo a sera impolverata e incalorita, con i pantaloni che s’attaccavano ai sedili e le parole alle promesse dei ritorni.
Quei ritorni che sempre più spesso si facevano in Passeggiata, con la barba finalmente fatta e vestiti “ammodo”. Ci s’andava in ghingheri, per non sfigurare davanti all’eleganza festosa della città.
Ti sentivi appiccicare la pelle quando ti fermavi all’orologio ad aspettare quelle che arrivavano sempre tardi, ma che sapevano d’agrumi, smanicate, con i capelli freschi di shampoo e i fianchi a dondolare.
Ma il dondolare del Lago, fissato dal belvedere, è sempre stato il mio rifugio segreto (e a questo punto segreto non lo è più).
Lì su una panchina, o di lato al porticciolo, ho passato e passo le mezzore importanti per le decisioni da prendere, le valutazioni da fare, i passi alzati a camminare.
La somma delle malinconie, delle nostalgie, dei pensieri, delle trepidazioni, delle attese è tutta in quello sciabordare dell’acqua scura tra le canne, che regala sempre soluzioni chiare ai miei dilemmi.
Da lì e da cima al molo, a ritroso, cerco di riguardare tutto il passare della vita legato a questi posti, dove non sono nato, ma ai quali appartengo, come appartiene la responsabilità al bene, la serietà alla promessa.
Io la promessa di metterci tutto me stesso l’ho fatta a Viareggio cinque anni fa e la mantengo, anche se non sono nato qui.