La Repubblica
ANDATE nel reparto maternità di qualsiasi ospedale. Guardate due culle vicine. I due neonati sembrano uguali, ambedue sani, vispi, vitali. Ma voi siete già in grado di dire che quello a sinistra, da adulto, guadagnerà almeno il 20 per cento in più di quello a destra, 2.500 euro al mese, ad esempio, invece di 2 mila. Come fate a dirlo? Semplice, quello a sinistra è figlio di un ingegnere. Non che quello a destra sia figlio di un barbone. Suo padre, in fondo, è ragioniere. La distanza fra i due titoli di studio paterni non sembra un abisso: ma è sufficiente per prevedere, con buona approssimazione, i loro, futuri, rispettivi redditi. Del resto, il bambino ancora più a destra, da adulto, porterà a casa non più di 1.500 euro al mese: suo padre è un operaio, che non è andato al di là delle medie inferiori.
E’ l’instantanea di una società immobile, pietrificata, con gerarchie sociali ed economiche pressoché immutabili, dove il merito individuale conta poco e in cui, dunque, salire la scala è una possibilità minima e precaria. In buona misura, lo sapevamo già, ma adesso lo certifica l’Ocse, l’organizzazione che raccoglie i paesi industrializzati, in uno studio di prossima pubblicazione (“A Family Affair”), che esamina, dati e statistiche alla mano, la mobilità sociale tra le generazioni, nei paesi ricchi del mondo. Ne risulta una spaccatura netta fra chi (Australia, Canada, paesi nordici) tende ad avere una mobilità sociale vivace e chi, invece, ne registra una lenta e faticosa: i paesi mediterranei e altri, che siamo abituati a considerare “democrazie avanzate”, come Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna. Ma l’Italia va a collocarsi nel gruppo di testa della vischiosità sociale in quasi tutti i parametri considerati. E il futuro non appare migliore, visto che uno dei punti positivi, rispetto ad altri paesi, per la mobilità italiana (la scuola pubblica) appare oggi incerto, alla luce delle direzioni di riforma del sistema scolastico nazionale.
Quanto pesa, dunque, lo stipendio di papà? In Italia, per quasi il 50 per cento. Questa, dicono le statistiche raccolte dall’Ocse, è la misura in cui il reddito dei figli riflette in Italia quello dei genitori. Nel senso che, in media, metà del vantaggio di reddito che un padre che guadagna molto ha su uno che guadagna poco si trasferisce comunque, automaticamente – a prescindere dai talenti e dalle storie individuali – al proprio figlio. La percentuale è appena superiore in Gran Bretagna e appena inferiore in Francia e Stati Uniti. In Danimarca, Australia, Norvegia, questa trasmissione, per così dire, ereditaria non arriva al 20 per cento. Il risultato è il divario nei redditi, a seconda delle famiglie di provenienza. Avere un papà laureato, ad esempio, è una sorta di polizza assicurativa. Non solo perché, in Italia (con uno scarto vistoso rispetto a Francia e Inghilterra), il figlio dell’ingegnere ha quasi il 60 per cento di possibilità in più di laurearsi come papà, rispetto al figlio dell’operaio e oltre il 30 per cento, rispetto al figlio del ragioniere. Ma perché la laurea in famiglia sottintende un background culturale e sociale più favorevole. E, dunque, il figlio di un laureato italiano (si laurei o meno egli stesso) guadagnerà, in media, il 50 per cento di più del figlio di uno che si è fermato alle medie inferiori. Va peggio – per chi ha il padre che ha lasciato presto la scuola – solo ai portoghesi e agli inglesi. In Francia, questa dote scolastica preaccumulata è del 20 per cento. In Austria e Danimarca, non arriva al 10.
Molti parlerebbero di giustizia sociale, ma questo non è un problema dell’Ocse. Una società in cui tutti, nel bene e nel male, sono – e restano – “figli di papà” è, per l’organizzazione dei paesi ricchi, anzitutto un problema economico: un immane spreco di risorse. “Primo – dice lo studio – società meno mobili tendono più facilmente a sprecare o utilizzare male talenti e capacità. Secondo, la mancata uguaglianza di opportunità può influenzare le motivazioni, gli sforzi e, alla fine, la produttività dei suoi cittadini, con effetti negativi sulla efficienza complessiva e sul potenziale di crescita dell’economia”. Forse, c’è anche l’immobilismo sociale a spiegare il lungo ristagno dell’economia italiana, dagli anni ’90 ad oggi. A moltiplicare la vischiosità dell’impianto sociale italiano c’è, infatti, una distribuzione vistosamente ineguale del reddito e della ricchezza di partenza. L’Ocse conclude che più è alta l’ineguaglianza sociale in un paese, più il paese è immobile. E l’Italia è uno dei paesi a più alto tasso di ineguaglianza, in Occidente.
I due dati – l’immobilismo e l’ineguaglianza – e i loro effetti sull’economia bruciano. Tanto di più, perché i timori dell’Ocse sullo spreco di risorse sono fondati sui numeri. Se è vero che il figlio di un laureato ha maggiori probabilità di laurearsi a sua volta e, comunque, di guadagnare di più, status sociale non significa affatto, in Italia, essere più brillanti a scuola. Nella classifica dell’Ocse, l’Italia (al contrario, ad esempio, di Usa, Francia, Germania e Gran Bretagna) è uno dei paesi in cui l’ambiente familiare ha meno influenza sui risultati scolastici, misurati dai test internazionali sulle capacità scientifiche degli studenti: il figlio dell’ingegnere non se la cava meglio del figlio dell’operaio in matematica. Più neutrali di noi, sotto questo profilo, sono solo canadesi, coreani e qualche paese nordico. Frutto, probabilmente, di un sistema scolastico pubblico ancora sostanzialmente omogeneo e socialmente integrato. In cui, cioè, non si apre un fossato fra scuole d’eccellenza e scuole di risulta e in cui è facile che il compagno di banco del figlio dell’ingegnere sia il figlio dell’operaio. Con vantaggi per tutti: lo studio registra che aumentare il mix sociale all’interno delle scuole può migliorare i risultati degli studenti economicamente svantaggiati, senza che appaiano effetti negativi sui risultati complessivi. L’Ocse insiste sugli effetti che il sistema scolastico ha nel compensare l’influenza del background familiare sui risultati scolastici del singolo studente. Da questo punto di vista, tuttavia, le ultime iniziative in materia di riforma della scuola italiana sembrano andare in direzione opposta a quella caldeggiata nello studio. L’Ocse, ad esempio, sottolinea che un sistema che spinga gli studenti ad anticipare la separazione fra i diversi percorsi di formazione si traduce, normalmente, in una maggiore influenza dell’ambiente familiare sui risultati scolastici. Analogamente, lo studio suggerisce che il proliferare delle opzioni fra diversi corsi alternativi finisce per esaltare l’importanza del background familiare di partenza sui risultati scolastici.
Il paradosso italiano è che preoccuparsi di assicurare a tutti uguali opportunità scolastiche, a prescindere dalla famiglia, finisce per apparire, alla fine, inutile. E’ come se il successo a scuola e quello nella vita, nel lavoro e nel reddito, fossero l’esito di due campionati diversi, separati, distinti e incomunicanti. Non solo, infatti, buona parte del futuro è già scritta nello stipendio di papà, ma dannarsi per studiare sembra servire a poco: a sentire gli economisti, in Italia, il grosso degli avanzamenti di carriera, nel nostro paese, è legato più ad anzianità ed esperienza che livelli di istruzione e competenza. E, d’altra parte, la catena delle rigidità è, probabilmente, più lunga di quello che appare dallo studio dell’Ocse. Qui entra in campo non solo lo stipendio di papà, ma anche quello di nonno. Se, infatti, il mio futuro si gioca fin da subito, sul reddito di famiglia, non ci sono possibilità che papà diventi ricco, spargendo promesse sulle future generazioni? La risposta è: scarsissime. La mobilità intergenerazionale in Italia è bassa, anche perché è bassa quella intragenerazionale. In parole più semplici, i redditi dei figli tendono a replicare quelli dei padri, perché è assai raro, statisticamente, che qualcuno modifichi, in modo significativo, le proprie condizioni di partenza, diventando molto più ricco (o più povero). Se la prima cosa la dice l’Ocse, la seconda la dice la Banca d’Italia. Fra il 2000 e il 2008, meno di una famiglia ricca su 100 è diventata povera. E solo una famiglia povera su 50 è diventata ricca. Oltre l’80 per cento dei poveri è rimasta povera o quasi. E quasi il 90 per cento dei ricchi è rimasto, più o meno confortevolmente, ricco.